lastampa.it – La Rinascita della Natività Betlemme

Larici veneziani, querce turche, lana italiana, piombo tedesco e i chiodi di Giustiniano: sono le materie prime con cui una trentina di ingegneri, architetti e restauratori toscani sono impegnati a realizzare il primo restauro della chiesa della Natività negli ultimi seicento anni. Costruita dall’imperatore Giustiniano nell’anno 531 sul luogo dove sarebbe nato Gesù, più volte modificata e ristrutturata, la chiesa più importante della cristianità fu oggetto degli ultimi lavo-ri di restauro documentati nel 1474, quando a occuparsene furono i veneziani. Da allora gli interventi sono stati solo occasionali e il tetto di legno era divenuto preda di termiti e acqua in quantità tali da farne temere il crollo. Da qui la decisione del-l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha la sovranità su Betlemme, di indire un bando per il restauro, vinto dalla Piacenti di Prato che da settembre ha iniziato a realizzare un progetto finanziato da più nazioni dagli Stati Uniti al Vaticano che sarà terminato a Natale.

Per capire di cosa si tratta siamo saliti sul tetto della basilica assieme a Marcello Piacenti, 53 anni, uno dei figli del fondatore della ditta toscana, che da otto mesi fa la spola tra un modesto appartamento a Beit Sahour e il laboratorio «dove operiamo seguendo le stesse tecniche degli ingegneri di Giustiniano». Il motivo, ci spiega, è che «abbiamo esaminato il tetto centimetro per centimetro,
LA SFIDA

Lavorare come si faceva 1500 anni fa non è facile: anzitutto per i materiali usati
I TECNICI

«Abbiamo esaminato il tetto in ogni centimetro: e le scelte di allora restano le migliori» accorgendoci che le scelte fatte allora su travi, incroci e geometrie restano le migliori in assoluto». Ma lavorare come venne fatto 1500 anni fa è una sfida non indifferente. Anzitutto per i materiali usati. «Giustiniano adoperò cedri del Libano per le travi del tetto, ma si tratta di un legno pressoché scomparso in Medio Oriente», e dunque per sostituire le travi divorate dagli attacchi fungini e dalle termiti si ricorre al larice usato dai veneziani come anche alle querce della Turchia, che gli Ottomani aggiunsero in alcuni settori per riparazioni limitate. «Nel Nord-Est d’Italia c’è lo stesso larice, lo abbiamo portato per nave al porto di Ashdod e da li è arrivato a Betlemme, dove i nostri restauratori lo hanno “invecchiato” adoperando una tecnica capace di renderlo simile alle altre travi che ancora sostengono il tetto» sottolinea Piacenti, mostrando come ogni asta venga incastrata nelle mura di pietra negli stessi incavi fatti dagli ingegneri di Giustiniano. «Abbiamo usato i computer più avanzati per eseguire i conteggi numerici più complessi ma l’esito ha sempre dato ragione a Giustiniano: ogni incavo venne fatto nel Cinquecento nel punto migliore».

Per proteggere le travi i veneziani misero degli strati di piombo che poi gli Ottomani rafforzarono, con sotto l’argilla che si è rivelata il vero punto debole perché ha consentito all’acqua di infiltrarsi e alle termiti di insediarsi e divorare. I restauratori toscani hanno così pensato una soluzione alternativa: posizionare lana italiana, fissata attraverso piccoli legni che creano un sistema di aerazione in grado di far seccare qualsiasi goccia d’acqua eventualmente penetrata. «Questa chiesa è un gioiello di architettura, costruita tutta in pietra osserva Piacenti ma ha nell’acqua il suo nemico». Il motivo è che l’aria secca di Betlemme può consentire al legno di durare all’infinito, a patto di proteggerlo dalle infiltrazioni piovane. Da qui anche la riproposizione delle lastre di piombo per la protezione esterna, acquistate in Germania «perché la qualità è la migliore in assoluto».

Operare sul tetto ha però posto il problema, sensibile, di aver bisogno di una gru, e la chiesa della Natività non ne aveva mai ospitata una. «Siamo passati attraverso una lunga consultazione fra le tre confessioni che condividono la gestione della chiesa, greci-ortodossi, armeni ortodossi e latini, e alla fine l’accordo è stato quello di montare la gru nel giardino armeno-ortodosso», osserva Piacenti. E sottolinea che «è servita una gru mobile per portare la gru fissa» con l’obbligo di fare costantemente attenzione «a ogni millimetro di terreno», perché «erigere una struttura che arriva a pesare 47 tonnellate non è facile quando il sottosuolo è disseminato di grotte millenarie». Per impiantare la gru è stata scavata una fossa profonda un metro e mezzo sulla quale sono state apposte lastre giganti di cemento armato. Il risultato è un enorme braccio nel cielo che i turisti guardano incuriositi e anche papa Francesco vedrà celebrando la messa sulla piazza della Mangiatoia il 25 maggio, nel secondo giorno della visita in Terra Santa.

Per tenere assieme legni e piombo, i tecnici adoperano i chiodi originali. «Giustiniano ne fece usare di tre differenti lunghezze, piccoli, medi e lunghi dice Piacenti e noi li estraiamo uno a uno, li restauriamo e poi li riadoperiamo per fissare le nuove travi». Per avere un’idea dell’impresa basti pensare che il peso totale dei «chiodi di Giustiniano» sfiora le nove tonnellate. E poi ci sono le vetrate: quelle attuali molto recenti erano oramai opache, lesionate, forate dai proiettili di guerre e intifade. Saranno sostituite con vetro ultravioletto per filtrare i raggi del sole.

Il quartier generale del restauro si trova proprio sotto il tetto, dove il team toscano ha creato un laboratorio nel quale esegue esami scientifici, apporta modifiche, tratta il legno e si occupa anche di preziosi mosaici bizantini. Ce n’è infatti uno vicino a ogni finestra e i restauratori ne studiano e curano i tasselli rovinati. «È un lavoro a metà tra ingegneria, restauro e archeologia sottolinea Piacenti. Dobbiamo saper ascoltare cosa ci dice ogni singolo pezzo della chiesa e poi operare di conseguenza».
Per riuscirci vengono coordinate da Betlemme consultazioni online con esperti in più università.

Maurizio Molinari – Inviato a Betlemme (Articolo del 16 Maggio 2014 – LA STAMPA)